Ma tu vuoi essere guarito?

In Psicologia Clinica by Centro PSY

Nell’ambito delle riflessioni e degli studi sul Counseling e sulla Relazione di Aiuto, spesso ci si domanda cosa sia per l’uomo il soffrire. Talvolta, addirittura, nella quotidiana attività clinica, davanti ad un volto “vivo” e sereno nonostante l’agonia del corpo, dalla nostra psiche e dall’anima emerge una domanda che è insieme di curiosità e stupore: Cos’è che può trasformare così tanto chi soffre al punto che, dal di fuori, se ne ha talvolta una percezione di gioia-di-vivere?

Partiamo da una convinzione: il corpo costituisce il punto terminale di due processi che ci riguardano, sofferenza e aiuto; e se il corpo è il punto di arrivo di entrambi i processi, occorrerà invece salire alla consapevolezza che non è tanto nel corpo piuttosto nella dimensione psichica, prima, ed in quella spirituale, poi, che si trova il vero nodo di tutto il problema; soprattutto nella dimensione spirituale, per noi considerato il principio vivificante dell’essere umano.

Sappiamo che è proprio della dimensione spirituale rendere possibile all’uomo scoprire PER COSA ancora vivere NONOSTANTE la sofferenza, allora il “ri-orientamento esistenziela, o spirituale” consisterà nello scoprire un nuovo o rinnovato motivo per cui vivere, e grazie al quale superare quel Sé così limitato dal male che ha colpito e frenato.

L’uomo insomma, anche se non è contento del dolore, può essere ancora sereno e felice in rapporto alla validità dei motivi che lo fanno vivere: se ha motivi e valori, vive e può farlo anche bene; se non ne ha, o li ha persi oppure è in un momento di confusione, allora l’appagamento e la serenità non saranno…di casa. Nonostante la salute fisica.

La vita non si ferma al dolore. Essa va oltre: l’uomo può ancora realizzare nella sofferenza il massimo di sé, purché non ceda alla tentazione di disperare, di dichiararsi sconfitto.

Occorrerà re-imparare a seminare il granello di senape se si vuole continuare a raccogliere “vita”, perché nessuno può spargere semi di negatività e disperazione e poi attendersi di fare un raccolto tutto sorrisi e felicità.

Nei vari racconti agiografici, nelle sacre scritture, nelle biografie di molti Grandi si legge che sovente spendevano la loro vita a contatto con sofferenti. Culturalmente e storicamente (quando non anche per scelta confessionale), la figura dell’uomo Gesù di Nazareth ci è vicina e ben narrata: soffermo brevemente la mia riflessione su alcuni dei suoi gesti tramandati, per trarne riflessioni.

L’uomo Gesù trascorreva spesso le sue giornate in mezzo a tutta una collezione di umane miserie, le più disabilitanti e quasi senza prospettive di guarigione.

MA NON RISULTA CHE ABBIA MAI INVITATO I MALATI ALLA RASSEGNAZIONE.

Eppure, per il loro stato e per il “loro bene” – se la loro condizione fosse stata per volontà di Dio – avrebbe dovuto farlo.

Ciò avrebbe fornito un orientamento spirituale a quanti vivevano in quel tempo una situazione di handicap, costituendo magari anche una pedagogia del dolore per il futuro. Ma NON l’ha fatto e credo ciò significhi che la “volontà” di Dio, come spiegazione della sofferenza, sia una pista psicologica e teologica sbagliata.

Allora il “sia fatta la tua volontà”, nella sofferenza, anche solo in un’ottica puramente psicologica, andrebbe recitato in chiave diversa da quella della semplice rassegnazione: di fronte alla sofferenza personale l’uomo Cristo si è comportato attivamente, coinvolgendosi di persona, prendendosi cura dei malati che gli venivano condotti, e iniziando così un movimento di azione nei confronti dei sofferenti che è oggi un’esigenza irrinunciabile.

E quando con la sua stessa vita psico-fisica ha dovuto sperimentare la sofferenza nelle forme terribili della croce, pare davvero abbia avuto prima reazioni di sconforto e preghiera per esserne liberato, ma subito dopo si racconta che si sia affidato al mistero della vita nonostante la sofferenza con l’invito risoluto agli amici: “Alzatevi, andiamo”. Più che accettazione passiva e rassegnata, vi è prima l’accettazione della propria fragilità e della situazione negativa, per poi ancora cercare di continuare a vivere la “volontà”, e che è sempre volontà di vivere la vita che ancora continua, nonostante tutto. E’ un volere la vita nonostante tutto, vita che è un continuo cercare qualcosa da fare e qualcuno da poter amare, fino alla fine.

E’ in quell’”Alzatevi, andiamo” che leggiamo la piena accettazione della Volontà di Vita, accettazione che non è ACCETTAZIONE DELLA SOFFERENZA, piuttosto ACCETTAZIONE DELLA VITA che continua, anche se in essa c’è una causa di sofferenza, perché nella vita c’è ancora qualche valido motivo per cui valga la pena lottare e procedere.

Ma tu, dunque, vuoi essere guarito per poter realizzare ancora un pezzo della tua vita?

Ma tu vuoi DAVVERO essere guarito?
Perché vuoi essere guarito?
Per fare che cosa e per chi hai ancora bisogno di essere guarito?
Hai chiaro per cosa e per chi lo vuoi?

Il SI’ sarà allora simile al granello di senape: “SE AVRETE FEDE PARI AD UN GRANELLO DI SENAPE, POTRETE DIRE A QUESTO MONTE: SPOSTATI DA QUI A LA’ ED ESSO SI SPOSTERA’, E NIENTE VI SARA’ IMPOSSIBILE”.

Niente, neanche di andare avanti a vivere nonostante l’impedimento che sembra essere un blocco totale.

Il voler essere guarito rappresenta la risposta che l’uomo può dare alla vita (e a Dio, se crede), affinché si realizzi ancora la vita che gli è possibile. Non un affidamento come accettazione passiva e rassegnata, piuttosto l’affidamento a qualcuno per essere aiutati ad individuare la strada da percorrere, e così continuare a vivere la vita in responsabilità.

Responsabilità che consiste innanzitutto nel NON rifiutare la vita perché ORA si presenta con una realtà pesante, quindi nel cercare vie alternative (magari l’opposto delle scorciatoie che portano alla felicità, o che avremmo intrapreso fossimo stati in salute!) per continuare a vivere nonostante; nonostante la sofferenza purché PER qualcuno o qualcosa che “ha bisogno” di noi e a cui noi teniamo…

Dire: “Sì, voglio essere guarito” è allora simile al granello di senape, la cui dimensione è così piccola…da essere comunque più grande della stessa sofferenza che è dentro di noi.

Eppure, solo “SE AVRETE FEDE PARI AD UN GRANELLO DI SENAPE…NIENTE VI SARA’ IMPOSSIBILE”
NIENTE VI SARA’ IMPOSSIBILE! Niente: che è andare avanti a vivere per amore di…, quand’anche forse mai del tutto liberi da…

Il nostro credere nelle possibilità di guarigione non può essere slegato da fattori di personalità, dalla storia personale e famigliare, e dalle situazioni di vita che viviamo di giorno in giorno: se nei momenti di gioia non ci è difficile credere all’amore, tutto si complica quando il dolore bussa alla casa della nostra vita e diventa un membro della nostra famiglia.

Il desiderio di salute può allora perdere le iniziali capricciose esigenze infantili, e portarci invece a imparare ad esprimere una nostalgia di benessere che si fa speranza: apertura al domani che neppure la sofferenza più grande riesce a sbarrare. E’ la GUARIGIONE PIÙ PROFONDA E DURATURA, PER SEMPRE, nonostante tutte le sfide che la vita potrebbe ancora proporre.

Quando la sofferenza prende la forma di “nostalgia del perfetto” ancora possibile, allora la guarigione profonda è dietro langolo.

Ma per tutti gli altri, occorre ricordare che il presupposto della guarigione, fisica o psichica o spirituale che sia, si trova per chi soffre anche nella capacità di abbandonarsi a qualcuno, a Dio, avendo speranza e fiducia in lui, e avendo chi aiuta fiducia che la speranza del sofferente è ben riposta. Abbandono fiducioso e speranza nella fedeltà.

Il GRANELLO DI SENAPE, in fondo, viene abbandonato nella terra perché qualcuno ha fiducia che nella terra possa avvenire ciò che è intrinseco nella speranza per quel granello: il germoglio, la vita. E nella nostra speranza, ciò che è intrinseco per noi, sia intrinseco credere nella continuazione della vita che è piena e vera solo quando è fatta di propagazione e perpetuazione dell’amore, qui ed ora, “et in hora…”; così che l’abbandono fiducioso, come fa il seminatore con il granello, potrebbe essere il momento necessario per un nuovo germoglio.

Non sembri strano parlare del rapporto FIDUCIA/SFIDUCIA nel nostro riflettere sulla relazione di Aiuto, essendo anzi una caratteristica della persona che “soffre” l’alterazione del corretto rapporto fiducia/sfiducia verso se stessi, verso gli altri, verso tutto e tutti; è un rapporto che porta e genera fiducia o sfiducia nelle proprie capacità e nelle proprie doti, che può portare diffidenza, e pensiamo alle conseguenze di non-uscita dalla malattia per chi, diffidente del mondo, non si fida di chi lo aiuta. Di fatto talvolta non vuole quell’aiuto, non lascia che ciò che esso trasmette entri nella sua vita e non lascia che la “guarigione” passi nella sua esistenza: come farà allora a guarire, se “guarire” è primariamente un uscire dal “sè-malato” per muoversi e vivere come con un “sè-sano”?

Se la porta è chiusa non solo non lasciamo che qualcuno o qualcosa entri, ma neppure ci permettiamo di uscire: come farà ad uscire la sofferenza per lasciare più spazio alla vita?

La persona malata è spesso in un grave stato di sfiducia, e la sfiducia si manifesta sovente in una perdita di contatto con il proprio mondo, con le proprie capacità, con ciò che rappresenta il proprio futuro: il sofferente si interroga, va alla ricerca nel suo passato di azioni o comportamenti ai quali collegare l’attuale star male; questo specialmente all’inizio, quando cioè è ancora alla ricerca di una spiegazione di ciò che gli è accaduto. “Non capisco perché proprio a me?”; “Che cosa ho fatto di male?”; “Non doveva permettere, ho sempre fatto del bene…!”.

E’ a questo punto che occorre aiutare chi soffre a ritrovare il corretto rapporto di fiducia con il mondo, attraverso esperienze e sensazioni che riducano al minimo la paura e le incertezze, allontanando la tentazione di prefigurarsi invece come paurose tutte le situazioni future.

Anche se adulto, chi viene colpito da una causa di sofferenza non è altri che un neonato; non neonato nel senso letterale del termine, ma un NEO-NATO, un “da poco nato” ad una nuova situazione. Nato per la prima volta in un mondo (della sofferenza) che prima non conosceva.

E chi è neonato alla sofferenza DOVREBBE, come un bambino, poter essere accompagnato nei suoi primi passi nel mondo sconosciuto; poter essere accompagnato da qualcuno che faccia la strada al suo fianco, in modo tale da farlo sentire sicuro in quei passi vacillanti, sicuro che c’è qualcuno che non lo lascia solo ora che il cammino è difficile, perché nuovo, né quando il cammino sarà più difficile per fatti della vita.

In fin dei conti non è neppure richiesto che chi si appresta ad accompagnare SAPPIA con certezza come sarà il percorso (neppure la mamma sa con certezza tutto quello che sarà necessario fare), ma chi accompagna dovrebbe avere chiaro che importante è la natura del rapporto interpersonale che costruirà, il rapporto che regola il senso di sicurezza e protezione, improntando in ultima analisi il neonato a favore della fiducia, piuttosto che della sfiducia.

Sarà allora, come per il bambino, l’aspetto qualitativo della poppata (non tanto la sua quantità) a dargli la sensazione di benessere psicofisico; per il malato sarà il rapporto interpersonale con chi è per qualche motivo al suo fianco a determinare il grado di fiducia che avrà nel mondo interiore (le sue capacità), e verso gli altri.

Come il neonato anche chi soffre, allora, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a conoscere questo mondo; altrimenti è un disperso, un isolato che, come un neonato, in quel mondo non sa più sopravvivere.

Certo, se non troviamo nessuno che stia con noi in quei primi passi possiamo anche imparare a leccarci le ferite da soli, ma a quale prezzo? Che il nostro mondo, la nostra porta, non si aprirà più a nessuno… “intanto nessuno vuole stare con me”, “intanto nessuno mi vuole…”

E se non c’è nessuno, per chi o perché dover rispondere SI’ al “Tu vuoi essere guarito?”; per quale motivo farlo se poi devo solo stare qui, da solo, a leccarmi le ferite?

Qualcuno dovrà pur farmi vedere o capire che vale la pena ancora vivere, nonostante tutto. Così che se occorre dare testimonianza del valore della solidarietà, occorrerà imparare a usare la solidarietà per dare testimonianza, testimonianza del valore della vita nonostante tutto.

Lasciamo ancora vibrare, nel profondo del cuore, le domande note:
MA TU VUOI DAVVERO ESSERE GUARITO?
PERCHE’ VUOI ESSERE GUARITO?
PER FARE CHE COSA E PER CHI HAI ANCORA BISOGNO DI ESSERE GUARITO?
HAI CHIARO PER COSA E PER CHI LO VUOI?

Abbiamo in fondo bisogno di avere chiara la risposta a queste domande, perché la guarigione possa davvero rappresentarsi come un evento NECESSARIO per la prosecuzione della vita. Credo infatti che la guarigione non dovrebbe, almeno in linea generale, dover riguardare solo il momento che si vive, non dovrebbe mirare a migliorare il solo momento che si sta vivendo e nel quale si pone la richiesta di salute; sembrerebbe una guarigione non aperta alla vita, ma solo al benessere momentaneo… anche se ciò sarebbe già molto!

So che per chiunque soffre l’invito a riflettere alle domande suesposte potrebbe sembrare troppo difficile, se non addirittura un’ulteriore aggravio al fardello che così pesantemente deve già essere portato, eppure proprio nel momento in cui chi soffre cerca ancora di comprendere “chi è”, ecco che per un processo positivo di guarigione dovrebbe ANCHE pensare a chi e come potrà ancora realisticamente e positivamente essere.

E’ difficile, lo sappiamo e non vorremmo doverlo fare, ma è necessario nella pedagogia della sofferenza l’autodefinirsi positivamente ANCHE nel futuro: esso dà energia, dà forza per superare gli ostacoli, dà coraggio e speranza per scegliersi – o ridefinire – uno stile personale di vita.

Guarire, si diceva, non dovrebbe essere il solo stare meglio adesso e subito, piuttosto stare meglio ora per poter costruire il futuro con maggiori sicurezze ed una più ampia libertà: è questa forse la visione prospettica che renderà sensate le risposte alle domande: “Ma tu perché vuoi essere guarito? Per chi o per cosa ne hai bisogno? Per quale domani hai bisogno che già il tuo oggi sia libero da impedimenti o freni? Hai chiaro perché lo vuoi?”

Il domani (e qualunque Domani sia) è medicina e dovrebbe essere oggettivato a partire dall’oggi: penso a domani – dirà chi soffre a chi lo aiuta – e spero e lo sogno migliore, ma già oggi devo cominciare a fare qualcosa perché ci sia questo domani. E non è sempre necessario fare grandi opere: l’oggi, il momento in cui si chiede di essere guariti, basterebbe fosse pieno di BUONA VOLONTA’ perché il domani ci sia, e sia possibilmente migliore; per questo ci si dovrà mettere il maggiore impegno personale possibile… e poi affidarsi e fiduciosi sperare: “Pace in terra agli uomini di buona volontà”.

Intanto, così facendo, chi aiuta avrà anche “terapeuticamente” aiutato il sofferente a vivere proprio in questo oggi che spesso desidera invece evitare “per paura di… Forse lo avrà fatto senza piena consapevolezza, almeno all’inizio, ma in una modalità pedagogicamente valida per tutti i domani che verranno.

E’ il salto di qualità che ogni sofferente dovrebbe poter affrontare: ma è un “salto” e da solo, così com’è OGGI, forse non ce la può fare, o almeno lui teme di non potercela fare.

Quante cose allora può agire chi prende per mano un neo-nato sofferente, quella persona da poco nata nel mondo sconosciuto della sofferenza per aiutarla a camminare? E camminare nella sicurezza che le cadute non saranno solo dolorose e da soli, ma anche riscaldate da qualcuno che lo solleverà per aiutarlo a camminare di nuovo e così via fino a quando non sarà in grado di farlo da solo, o addirittura fino a quando vorrà e riuscirà ad aiutare a sua volta un altro “neo-nato”!

Se un malato provasse a vivere tale salto di qualità, guardandosi allo specchio potrebbe anche non riconoscersi più; dall’altra parte vedrebbe ciò che grazie al suo Io spirituale è davvero, e non ciò che l’Io psichico gli fa pensare di essere.

La vera vita -lo sperimentiamo talvolta!-, è più di quanto ci fa provare la nostra mente.

Ma tu perché vuoi esser guarito?
Perché c’è qualcuno che ha bisogno di me.

Impegnarsi per gli altri può rappresentare la grande rivoluzione silenziosa contro la minaccia portata alla singola vita di chi soffre; la carità altruistica, la compassione, è il segno che lo spirito dell’uomo si ribella all’immobilità scelta dalla psiche quando soffre, e magari soffre anche perché ha un corpo segnato dal dolore.

Ancora una volta vediamo che nello spirito, e grazie alla libertà dello spirito, c’è la chiave di qualunque evoluzione: partendo dalla dimensione spirituale possiamo cambiare il mondo, quello privato come quello che ci circonda, in un percorso di crescita che può rappresentare un momento di cammino verso una vita sempre più serena all’indirizzo della Verità; una vita più in armonia con se stessi, col creato, col prossimo e col divino, in questa vita e nell’altra. Vivere grazie allo spirito è un percorso estremamente dinamico all’insegna dell’amore, e concepire la spiritualità come la chiave di volta di ogni evoluzione – in termini dinamici -, significa giungere a comprendere che occuparsi concretamente del prossimo è, ad un tempo, crescita sia personale che del mondo, come forse ha voluto la stessa natura che ci ha creati. Il dedicarsi a chi sta accanto insegna a sdrammatizzare e mettere più chiaramente a fuoco i propri problemi, stimola la creatività e permette di trovare la propria completa realizzazione. Il fatto allora che oggi milioni e milioni di uomini e donne vivano come esperienza quotidiana quanto è stato teorizzato e vissuto da tanti grandi spiriti dell’umanità, può suggerirci che in molti hanno già compreso che un simile “salto di coscienza” è la premessa indispensabile e nuova anima per l’uomo nuovo: l’uomo che ha bisogno di sopravvivere ai suoi mali, quello che chiede di essere guarito, di vivere oltre…

Avvertire l’esigenza di aprirsi realmente all’altro e non solo in termini pietistici, ma costruttivi per entrambi, diviene il segno inequivocabile di una trasformazione in atto e di un avanzamento necessario e atteso. Un avanzamento oltre l’oggi, oltre quest’oggi che è di sofferenza; è avanzare verso la salute, procedere verso la guarigione e farlo proprio oggi mentre ancora non siamo del tutto guariti, ma in una modo in cui lo stesso farlo è per guarire.

L’impegno per l’altro è una medicina, il contrario dello stare isolati (come invece vorrebbe lo psichico dell’uomo sofferente) che è, all’opposto, causa ed insieme sintomo di insoddisfazione e dolore.

Siamo all’epilogo di questa riflessione: la vera guarigione è talvolta desiderare di comportarsi da sani, nonostante l’essere ammalati.

Ci è noto: non c’è nulla al mondo che possa aiutare qualcuno così efficacemente a sopravvivere nelle peggiori condizioni, se non la consapevolezza che la sua vita ha un significato. Dobbiamo apprendere e insegnare ai disperati che, in verità, non importa affatto che cosa possiamo noi attenderci dalla vita (“Ormai non posso sperare più nulla dalla vita?”), ma importa – in definitiva – solo ciò che la vita attende da noi, solo la risposta che noi cerchiamo di dare.

E la vita, la Vita se crediamo, da noi si attende solo una risposta alla domanda: MA TU VUOI ESSERE GUARITO? Tutto sommato credo proprio si aspetti un deciso: SI’, lo voglio.

Perché ci ha posto dinanzi la vita e la morte, la benedizione e la maledizione, per poi dirci tuttavia: “Scegli dunque la vita, onde tu viva” (Deut…)

“Ma tu vuoi essere guarito?” (Cfr: Gv 5, 2-9)

Fonte: Vertici Network
Autore: Paolo Giovanni Monformoso

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