Da un punto di vista formale, il mediatore è un operatore che ha svolto studi in campo psicologico, medico, sociale, umanistico o giuridico ed è stato adeguatamente formato ad acquisire teorie e tecniche della mediazione, al fine di saper affrontare e gestire situazioni di conflitto in ambito familiare, comunitario e sociale.
L’immagine che rende meglio il suo percorso formativo, una sorta di disegno della sua biografia professionale, è quella di una clessidra collocata orizzontalmente, dove la dimensione posta a sinistra rappresenta l’eterogeneità degli studi e dei know-how di provenienza, il nodo situato al centro l’esperienza della formazione specifica in mediazione, e la dimensione posta a destra i possibili sbocchi operativi nei diversi contesti in cui è richiesto un intervento di mediazione.
Ho scelto la clessidra, perché si tratta di un’immagine che coniuga abbastanza bene la dimensione temporale, rappresentata dalla sua funzione simbolica, con quella spaziale, offerta dalle linee geometriche che la costituiscono e che sottolineano l’idea di percorso implicita nell’esperienza della formazione.
Un percorso che, coerentemente con il paradigma sistemico che ne definisce la cornice teorica di riferimento, enfatizza il principio dell’equifinalità, secondo il quale in un sistema aperto un medesimo stato finale può essere il risultato di differenti condizioni iniziali.
Mentre per alcune figure professionali, come gli avvocati, è abbastanza probabile che l’intervento di mediazione sarà attuato in campo psico-giuridico, per gli altri operatori sono possibili intrecci differenti tra competenze di base, formazione effettuata e tipo di contesto in cui ci si trova prevalentemente ad operare.
Ciascuno, comunque, adotterà nella pratica della mediazione uno stile personale, coerente con le conoscenze e le esperienze che gli provengono dal proprio back-ground culturale. Dunque, per ampliare il proprio bagaglio di conoscenze e competenze, l’operatore in formazione dovrà passare attraverso una strettoia. Ma tale passaggio avviene nel tempo di almeno due anni, necessari per deformare le proprie visioni e trasformare i propri stili di relazione. Ora, finché la clessidra rimane in posizione orizzontale, il tempo è bloccato.
Immaginiamo, quindi, di farla ruotare sul piano di clivaggio e di disporla in senso verticale, in modo che essa cominci a far scorrere il tempo della formazione, il tempo dei processi individuali e relazionali, raccogliendo la sfida contenuta nell’eterogeneità dei saperi e delle pratiche di cui gli allievi sono portatori, sfida che ha come obiettivo principale quello di trasformare i vincoli posti da tale tipo di configurazione del gruppo di lavoro in risorse per l’apprendimento e la crescita personale.
Proviamo infine ad entrare nel cuore della clessidra. Come si diventa mediatore? Se il compito fondamentale del mediatore è di accogliere la parte vitale e costruttiva del conflitto, canalizzando la sua energia verso quelli che sono i principali compiti di sviluppo e scopi evolutivi del sistema, la difficoltà sta proprio nel riuscire ad armonizzare in maniera efficace tutte le tensioni che si incontrano durante la formazione, prima, e la pratica della mediazione, dopo. Una sorta di percorso ad ostacoli, dove la contraddizione è la regola e la ricerca di soluzioni creative, che siano capaci di mantenere una giusta tensione tra polarità opposte, la meta.
Ho individuato almeno cinque polarità dialettiche che accompagnano il complesso lavoro di costruzione dell’identità del mediatore:
Pensiero lineare/ Pensiero complesso.
Normale/ Patologico.
Apprendimento di tecniche/ Lavoro su di sé.
Focus sulla storia/ Focus sull’obiettivo.
Rigore/ Creatività.
Pensiero lineare/Pensiero complesso
Narra un’antica storia che un musulmano viene messo in prigione per un reato che non ha commesso. Un amico va a trovarlo e riesce a dargli in segreto, come dono, un tappetino per le preghiere. Il prigioniero inizialmente rimane deluso, perchè avrebbe preferito ricevere magari la lama di un coltello, o qualche altro arnese del genere, ma, dopo un po’ di tempo, decide di usare il regalo dell’amico. Così, mentre recita le preghiere mattutine, comincia ad osservare attentamente e a studiare l’intricata trama decorativa del tappeto, fino a che, un giorno, osserva un disegno alquanto interessante, che riproduce esattamente lo schema della serratura interna della sua cella.
Forza la serratura ed è finalmente libero. Quale pensiero o attitudine della mente può permettere un’osservazione tanto profonda, da darci la consapevolezza che ciò che cerchiamo non è poi così lontano e difficile da raggiungere come sembra? Secondo la filosofia dell’AIMS, la mediazione è “sistemica” non tanto per l’applicazione che trova in contesti diversi da quello familiare, quanto per il vertice epistemologico adottato. Il pensiero lineare, infatti, non si addice ad una lettura articolata del conflitto e delle sue possibili evoluzioni. E’ necessario aprirsi ad una visione più ampia delle modalità con cui si configura il conflitto all’interno di qualsiasi sistema, sia esso un individuo, una coppia, una famiglia, un gruppo o un’organizzazione. Il percorso formativo si propone pertanto di favorire il confronto tra ottica lineare e ottica circolare, tra tendenze culturali riduzionistiche, che alimentano stili di osservazione della realtà unilaterali e parziali, e necessità di operare secondo un pensiero complesso, multidimensionale, capace di dare significato alle diverse forme e varietà del molteplice.
Esso intende, pertanto, sostenere l’allievo nel difficile compito di individuazione dei propri pregiudizi e di quelle consolidate abitudini di categorizzazione cognitiva, che orientano ben precise scelte emozionali e comportamentali, al fine di aiutarlo ad integrare dentro di sé una molteplicità di letture e di significati indispensabili per la costruzione del processo di mediazione sistemica. “Il conflitto, scrive Zamperini, diventa esperienza pensabile, vivibile e trasformabile, se ancor prima viene creato lo spazio per accogliere la qualità paradossale del coacervo emozionale che esso veicola e che, solo, può disarticolare la logica del pregiudizio e della credenza”. Ciò che si rende necessario, dunque, secondo l’Autore, è il passaggio da un pensiero categoriale ad un pensiero paradossale, che sia in grado di accogliere e contenere le contraddizioni e le valenze dissonanti che caratterizzano la comunicazione conflittuale tra le parti. Ritornando alla storiella del prigioniero e del tappeto, può essere utile ricordare che numerosi studi nel campo della psicologia culturale hanno dimostrato che i processi mentali non sono universali, bensì risentono dell’influenza e del condizionamento delle singole culture di appartenenza.
Si è visto, per esempio, che gli occidentali, di fronte ad un’immagine complessa, tendono a percepire maggiormente le figure rispetto allo sfondo; gli orientali, invece, tendono a memorizzare maggiormente gli elementi e i dettagli che fanno parte dello scenario. Le stesse differenze si possono riscontrare nello studio di processi cognitivi più complessi, dimostrando che ciascuna visione del mondo trova la sua logica spiegazione non solo nelle radici biologiche, ma anche in quelle culturali dell’individuo. Di fronte ad una contraddizione l’uomo occidentale si trova a disagio e cerca di risolverla, perché la sua logica non tollera il paradosso.
L’uomo che proviene da una cultura orientale, invece, accetta l’esistenza del principio di contraddizione, cioè che la verità di una proposizione non esclude la verità di un’altra, per cui, in definitiva, egli crede che la verità emerga solo quando si accetta la validità simultanea di asserzioni contraddittorie.
Favorire il confronto con l’aspetto vincolante del proprio modo di osservare la realtà, con la tendenza costante della mente ad analizzare, categorizzare e giudicare, ed educare al pensiero paradossale, attraverso l’esperienza diretta della relazione conflittuale con l’altro, diventano, pertanto, gli obiettivi più importanti dell’intero processo formativo.
Normalità/Patologia
La seconda polarità dialettica riguarda i rapporti tra la dimensione della normalità e la dimensione della patologia nella pratica della mediazione. Parlo di rapporti, e non di distinzione di ambiti operativi, poiché ritengo difficile e oltremodo inutile mantenere una netta separazione tra queste due dimensioni che, in germe, sono entrambe presenti nella dinamica del conflitto, di cui possono rappresentare lo sbocco evolutivo rispettivamente verso il cambiamento o la cronicità. Credo che mantenere viva questa dialettica durante la formazione aiuti non solo a ridefinire i confini della normalità, ma soprattutto a spostare su di un piano più complesso il dibattito intorno alle differenze e somiglianze tra mediazione e psicoterapia.
La mediazione sistemica, pur essendo dotata di una propria specificità, è pur sempre un processo di aiuto che, a mio avviso, mantiene un rapporto di continuità con la psicoterapia e il counselling. E,’ pertanto, un processo tra processi, capace di proporre e produrre una nuova cultura del conflitto e delle relazioni umane, fondata sul rispetto delle differenze, sui principi della solidarietà, della cooperazione e della non-violenza tra gli esseri umani.
Apprendimento di tecniche/Lavoro su di sé.
La terza polarità si riferisce ad un aspetto centrale dell’apprendimento: l’importanza di integrare le abilità tecniche con lo spessore della persona e, in particolare, con il suo livello di consapevolezza. Credo che su questo punto tutti i didatti dell’AIMS dovrebbero interrogarsi ed aprire un forum di discussione sul rapporto tra durata e “mission” della formazione in mediazione sistemica. Si pongono infatti numerosi interrogativi.
Sono sufficienti due anni per formare un mediatore, a cui vengano richieste particolari doti e competenze relazionali nella gestione dei conflitti? In questi due anni, quanto spazio deve essere dedicato, e secondo quali modalità, alla sua formazione e crescita personale? Sono applicabili a tal fine le strategie e i metodi utilizzati nei training di psicoterapia, tout-court, oppure bisognerebbe adeguarli agli obiettivi del corso e alle caratteristiche stesse dell’intervento di mediazione?
Se crediamo fermamente all’impossibilità di trasmettere un “saper fare” senza collegarlo ad un “saper essere”, in modo che la risultante sia un “sapere” flessibile, eticamente fondato, esteticamente orientato, inteso come un “sapersi interrogare” sulle teorie e sui loro limiti, sul proprio modo di interpretarle, di applicarle e di trasformarle, adeguandole alle esigenze del contesto, della relazione e della storia, non possiamo ignorare l’importanza di questa polarità dialettica tra uso della tecnica e lavoro su di sé. Dobbiamo piuttosto cercare di renderla produttiva ai fini formativi e trasformativi dell’allievo.
Focus sulla storia/ Focus sull’obiettivo
Sappiamo che la difficoltà maggiore che il mediatore incontra nell’ambito della mediazione di divorzio è di trovare un giusto equilibrio tra l’importanza di approfondire la storia della coppia e la trama dei significati che hanno costellato gli eventi critici della vita matrimoniale, cioè di rivolgersi al passato, e la necessità di mantenere il focus sul presente e sugli obiettivi più importanti da raggiungere, cioè di guardare al futuro. Qui si confrontano classicamente modelli diversi di mediazione familiare, di orientamento più pragmatico e negoziale o più squisitamente terapeutico.
Ma anche all’interno dell’AIMS il confronto appare aperto e propositivo di differenze metodologiche tra le varie Scuole, pur se all’interno dello stesso paradigma sistemico. L’oscillazione verso un estremo o l’altro di questa polarità, insieme alla ricerca di una modalità nuova di attualizzare la storia della coppia, enucleando quegli aspetti vincolanti che impediscono di accedere ad una narrazione congiunta e più armonica del conflitto, contraddistingue, a mio avviso, la nostra proposta formativa, lasciando, oltretutto, abbastanza libero il mediatore di adattare le sue competenze professionali alla singolarità delle diverse storie con cui si confronta nella sua pratica.
Egli dovrà, infatti, adottare le strategie più efficaci per aiutare l’intero sistema familiare a riorganizzare i propri confini relazionali dopo la separazione, integrando l’impegno faticoso di una genitorialità condivisa e consapevole con la necessità di elaborare il dolore della fine e poter ritrovare una modalità di comunicazione interpersonale più soddisfacente. L’aderenza alla realtà dei bisogni, non sempre coincidenti, degli adulti e dei bambini, da una parte, e a quella dei tempi e delle finalità dell’intervento di mediazione, dall’altra, rappresenta, dunque, per il mediatore, la sfida più rilevante del suo intervento, e come tale, richiede una capacità di adattamento e di equilibrio particolari, che solo l’esperienza può far maturare a pieno.
Rigore/ Creatività
L’ultima riflessione riguarda il rapporto tra rigore e creatività, la coppia di opposti spesso citata da Bateson nei suoi scritti. Mi riferisco al rigore del modello, delle regole del setting di mediazione, ma anche al rigore etico richiesto al mediatore per garantire lo svolgimento degli incontri secondo modalità che risultino eque, corrette, rispettose delle richieste e dei bisogni emotivi di tutti. Mi riferisco, inoltre, alla creatività necessaria perché il rigore non si trasformi in rigidità e l’esperienza della mediazione si svolga in un clima di collaborazione, di ricerca e di apertura.
Spetta, quindi, al mediatore sollecitare la ricerca delle soluzioni più idonee per la famiglia, attivando la sua parte creativa, offuscata dalla spirale del conflitto e dalla rigida contrapposizione delle parti, e conducendo il processo di mediazione con una giusta dose di equilibrio tra direttività e libertà di espressione, tra autorevolezza e comprensione affettiva.
Lo stesso equilibrio richiesto al didatta per condurre il gruppo in formazione verso l’acquisizione di un pensare e di un sentire sistemico, integrando quella che Bateson definisce “finalità estroversa”, cioè il desiderio di modificare il mondo, con la “finalità introversa”, cioè il desiderio di cambiare il Sé. Solo in questo modo il mediatore riuscirà a mettere in moto i processi creativi del cambiamento, utilizzando aspetti e risorse della propria personalità.
Una buona formazione non dovrebbe mai abbassare il livello di tensione tra queste ed altre polarità che emergono durante le varie fasi dell’apprendimento, in modo da preparare il mediatore a sostenere il difficile ruolo di contenitore di tensioni e contraddizioni emotive, al fine, non tanto di risolverle, quanto di accettarle ed armonizzarle. Se questo accade dentro di sé, può accadere anche nella dinamica di comunicazione tra le parti in conflitto, dentro le loro menti e nella profondità dei loro cuori. Perché l’obiettivo ultimo della mediazione non è spegnere il conflitto, ma pacificarlo. Una buona definizione di mediatore è quella di “operatore di confine”. Ma, affinché egli sia in grado di porsi al confine tra posizioni, bisogni, emozioni, modelli di pensiero, miti, culture e narrazioni contrastanti, è necessario che prima abbia svolto un accurato lavoro su di sé, sulle proprie modalità di vivere il conflitto nel suo mondo interno, e sullo stile relazionale con cui lo affronta, coerentemente con quella che è stata la propria storia familiare e personale.
Tale lavoro di consapevolezza gli permetterà di rimanere equidistante nel gioco attrattivo degli opposti, di rispondere alla richiesta di aiuto delle parti in maniera attiva e non reattiva, sospendendo qualsiasi giudizio di valore, e di favorire l’adozione di processi autoriflessivi all’interno della logica stereotipata del conflitto. Al termine di questa breve analisi dei processi messi in moto dall’esperienza formativa, vorrei soffermarmi ancora sulla necessità di ottimizzare tempi e risorse per la realizzazione degli obiettivi didattici, riservando eguale spazio all’apprendimento pratico e alla riflessione su di sé e sulla propria storia. A tal proposito, credo che il lavoro sugli stili personali di comunicazione sia prioritario ed essenziale, così come l’affinamento delle capacità di osservazione e di ascolto, e che l’apprendimento di tecniche di negoziazione debba passare attraverso l’analisi e la gestione dei conflitti che si sviluppano all’interno del gruppo in formazione.
E’ questo, infatti, il vero laboratorio relazionale che permette lo sviluppo del processo formativo. Al suo interno, nei tempi opportuni e secondo idonee modalità, potrà essere approfondita la storia familiare dell’allievo, rivisitando, in particolare, alcune aree significative, come la costruzione dell’identità di coppia, la genitorialità, la cultura familiare che ruota intorno al conflitto, l’attribuzione di significato agli eventi del ciclo di vita connessi con l’esperienza della separazione, in tutte le sue accezioni.
Nel mio Istituto di formazione abbiamo sviluppato specifici moduli didattici su “Comunicazione, narrazione e conflitto”, ispirandoci allo studio dei modelli di comunicazione proposto da Virginia Satir e ad alcune tecniche di psicodramma utilizzate nel “Dialogo delle voci” di Stone. Sono sempre più convinto, infatti, che la mediazione rappresenti un’area “trasgressiva” rispetto alla psicoterapia, che può consentire maggiori gradi di libertà e di sperimentazione nell’attività didattica, anche grazie alla diversa disponibilità degli allievi a mettersi in gioco.
Il lavoro su di sé potrà essere approfondito, pertanto, attraverso l’organizzazione di giornate intensive, residenziali, durante le quali si potranno utilizzare i differenti linguaggi della creatività, per favorire la ricerca delle modalità comunicative più aderenti alla propria struttura di personalità, di quella giusta tensione tra gli opposti, che permette a ciascuno di armonizzare i differenti aspetti del proprio sé, accogliendo le contraddizioni implicite nel “gioco delle parti” ed imparando a rimanere “immobile nella bufera”, a seguire la direzione della corrente, piuttosto che andarci contro.
Conclusioni
Il dibattito sulla formazione sviluppato in questi ultimi anni all’interno dell’AIMS, durante gli incontri di autoformazione riservati ai didatti e le riunioni della Commissione per la didattica, a cui partecipano i rappresentanti di tutti gli Istituti riconosciuti, sta dando finalmente i frutti desiderati. L’ampliamento del monte ore formativo previsto per i corsi di mediazione, l’apertura all’area del counselling sistemico, le opportunità di scambio culturale e personale tra i soci offerte dai convegni nazionali e ancora di più dalle pagine di questa rivista, testimoniano l’impegno di quanti, a differenti livelli, si adoperano per migliorare la qualità della ricerca condotta nell’ambito della mediazione sistemica all’interno dei singoli Istituti.
Sono convinto che l’AIMS possa offrire ancora notevoli contributi allo sviluppo della mediazione in contesti diversi dalla coppia e dalla famiglia. Sarà, pertanto, estremamente importante confrontarci in futuro con altri modelli di formazione consolidati in ambito nazionale ed internazionale, riservando una particolare attenzione alle differenze metodologiche che emergono tra formazione in mediazione familiare e formazione in mediazione comunitaria e sociale. Il mio auspicio è che questa rubrica possa rappresentare non solo una concreta opportunità per ampliare il dibattito scientifico, ma anche un trampolino di lancio per nuove iniziative e proposte di ricerca nell’ambito delle attività didattiche della nostra Associazione.
Daremo in questo modo ancora più impulso alla Commissione Didattica, che, attraverso le giornate di autoformazione, i seminari e i congressi nazionali, potrà continuare a svolgere la sua fondamentale funzione di raccordo tra i didatti, impegnandosi in un produttivo lavoro di ricerca e sperimentazione di nuovi modelli formativi, che migliorino la qualità dell’apprendimento e quindi della pratica stessa della mediazione.
Fonte: Rolandociofis’ blog
Autore: Giuseppe Ruggiero
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