In un’epoca estremamente competitiva, nella quale l’ostentata freddezza (o, all’opposto, l’esasperata esibizione dei sentimenti) è di rigore, parlare di timidezza risulta quasi demodé.
Eppure essa è un sentimento come tanti altri, rinvenibile (in forme e misure diverse) in ognuno di noi.
Possiamo definire la timidezza come un disagio che si manifesta di fronte agli altri (estranei, ma anche persone conosciute) e che origina un comportamento esitante, ritroso, impacciato, con un corollario di sintomi quali l’arrossamento del viso, una difficoltà d’espressione verbale, una gestualità impacciata e persino un temporaneo peggioramento delle funzioni cognitive (l’ansia associata alla timidezza può far apparire il timido come poco intelligente o smemorato).
Un altro tratto tipico è la paura del giudizio altrui, da cui i sentimenti di vergogna e le già citate somatizzazioni.
Talvolta la timidezza può prendere le sembianze della fobia sociale, cioè, rifacendoci al DSM IV-TR, al timore di manifestare ansia fino all’attacco di panico vero e proprio quando ci si trova insieme a persone in situazioni imbarazzanti. Questo modo di essere può altresì prendere la forma del disturbo evitante di personalità, cioè “un quadro pervasivo di inibizione sociale, sentimenti di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio negativo, che è presente in una varietà di contesti”.
La timidezza è quindi un disagio esteriore dovuto a un certo modo di funzionare del nostro mondo interno (pensieri, emozioni, pregiudizi). Il tutto ha come conseguenza non solo la sofferenza nel vivere determinate situazioni sociali, ma anche i comportamenti d’evitamento (il timido che preferisce stare in casa invece di partecipare ad una festa o che rinuncia ad un approccio sentimentale per paura della brutta figura o del rifiuto).
La vita del timido può pertanto essere una vita di rinunce, con tutto quello che comporta in termini di mancata autorealizzazione e serenità. Si possono innestare, inoltre, disagi aggiuntivi quali gravi disturbi d’ansia, depressione, dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti.
Per quanto riguarda le origini della timidezza, queste possono essere ricondotte a diversi fattori: ereditari; psicodinamici (legati alle vicende personali del soggetto, spesso risalenti alla prima infanzia); sociologici, ovvero connessi all’ambiente, alla cultura e all’epoca di riferimento.
Niente da fare allora?
Non proprio.
Talvolta l’angoscia si placa col ripetersi degli incontri: il timido, infatti, può pervenire ad un adattamento, a volte soddisfacente, dopo un periodo iniziale di inibizione sociale. La timidezza può altresì scemare in seguito all’instaurarsi di relazioni affettive appaganti, che innalzano la propria autostima. Vi possono essere poi successi scolastici, professionali o percorsi personali quali la psicoterapia (la quale, come nel caso della psicoanalisi, mira alla ristrutturazione della personalità).
Fonte: Psicologi Italia
Autore: Angelo Feggi
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