Stabilita la rilevanza assoluta, dal punto di vista giuridico, dell’esistenza del nesso causale tra evento mobbizzante e disturbo psichico (danno biologico), è necessario che lo psicologo, attraverso un’attenta anamnesi, possa stabilire che l’esordio del disturbo attuale sia avvenuto successivamente al fatto lesivo (nel mobbing, il fatto lesivo è protratto nel tempo e l’esordio del disturbo assume particolare rilevanza). I disturbi lamentati devono essere oggettivamente riconducibili – dal punto di vista qualitativo, quantitativo e modale – al fatto lesivo. Essi sono in generale riconoscibili come disturbi d’ansia, che nel DSM IV (asse I) vengono suddivisi nelle seguenti categorie:
Disturbo da attacchi di panico
Fobie
Disturbo ossessivo-compulsivo
Disturbo d’ansia generalizzata
a cui si devono aggiungere le categorie del:
Disturbo post-traumatico da stress
Disturbo da stress acuto
il cui insorgere non può prescindere dall’esperienza soggettiva di un evento traumatico tale da mettere in pericolo la propria vita o gravemente la propria incolumità personale.
I disturbi d’ansia possono degenerare in depressione clinica, come prodotto della frustrazione o ferita narcisistica che riguarda la stima di sé. (Bibring, 1953) L’A. considera infatti la depressione come emergente dalla tensione tra ideali e realtà, in soggetti con aspirazioni narcisistiche fortemente investite. Alcuni ricercatori trovano infatti nella maggior parte delle vittime di mobbing tali caratteristiche soggettive.
Altri (Battista, 2002) la definiscono un mutamento dell’equilibrato stato dell’umore verso una tristezza più o meno accentuata che manifesta una calo della stima di sè e, a volte, un’esigenza di autopunizione. Nel linguaggio diagnostico attuale si trovano le definizioni di:
depressione lieve (da fattore stressante in individui fondamentalmente sani secondo il DSM IV)
depressione moderata (distimia)
depressione grave (legata a disturbi della personalità)
In ogni caso, nella fattispecie che stiamo trattando (il mobbing) la depressione è sempre reattiva (a evento stressante). Condividendo l’assunto di Battista (2002), che recita: una catalogazione dei disturbi mentali, per quanto precisa e chiara, non classificherà mai alcun essere umano né tanto meno spiegherà un suo stato di malessere; classificherà invece, sempre e comunque, i disturbi dell’individuo: cioè i suoi sintomi, la valutazione della Scuola fondata dal Prof. Federico Navarro (IFeN) considera la depressione (disturbo depressivo maggiore, disturbo bipolare o maniaco-depressivo) – come l’ansia – un sintomo e non una patologia. Come sottolinea Battista, sulla base del DSM IV, si pone la diagnosi di depressione clinica ove siano constatati inconfutabilmente almeno cinque dei seguenti sintomi (sintomi per definire un sintomo!):
scarsità di appetito con dimagrimento, oppure aumento dell’appetito con aumento di peso;
insonnia o ipersonnia;
iperattività o inattività fisica;
perdita d’interesse o di piacere nelle attività consuete, o calo delle pulsioni sessuali;
perdita di energia e sensazione di stanchezza;
senso d’indegnità, autorimprovero, o senso di colpa inappropriato;
scarsa capacità di pensare o di concentrarsi;
pensieri ricorrenti di morte o di suicidio.
Considerazioni e proposte
Nella sua “Somatopsicopatologia”, Navarro (2000) definisce la depressione come reattiva a inadeguato vissuto neonatale e considera l’instaurarsi della sintomatologia depressiva maggiore come esplosione del nucleo psicotico extra-uterino responsabile del quadro distimico border-line. L’evento scatenante deve avere – in questa ottica – la caratteristica di essere una condizione esistenziale di perdita o separazione affettiva dove esisteva un vincolo di dipendenza non risolto. (Ricordiamo che dal punto di vista giuridico l’evento lesivo deve essere tale da produrre un danno in relazione a un equilibrio precedente e che risulta, in questo senso, irrilevante la preesistenza di una patologia che predisponga all’insorgere del danno stesso.)
Questo apre il campo di osservazione al quadro generale della condizione lavorativa in cui opera il lavoratore oggetto di mobbing e impone una visione di tipo psicosociale e di psicologia dell’organizzazione. L’azione mobbizzante viene vissuta soggettivamente come riproducente un vissuto di separazione traumatica in età neonatale; è evidente che l’investimento riguarda la necessità di dipendenza (Dominici e Montesarchio si domandano come mai le vittime di mobbing abbiano generalmente resistito per tanto tempo in condizioni di lavoro così traumatizzanti), come si dipendeva dal nutrimento del seno materno, che – fatalmente – si rivelò incapace di fornirlo. La collusione con l’organizzazione è dunque fondata sul porsi di quest’ultima come “madre nutrice” e dalla volontà – più o meno conscia – di essa di essere nutriente (“ti dò lavoro, quindi ti dò da mangiare”), il che prevede un’ottica organizzativa onnipotente e tesa a soddisfare bisogni interni legati a carenze di strutturazione dell’Io (anche le organizzazione hanno un Io, quando sono proiezioni di chi le ha “create”) e all’angoscia che nasce dalla possibilità perennemente imminente di cadere nel vuoto del proprio nucleo psicotico, che l’onnipotenza narcisistica tende strenuamente a “coprire”.
Naturalmente, ogni caso di mobbing potrebbe essere affrontato in questa ottica e risolto non sul piano della giurisprudenza, quanto su quello della psicodinamica (o della somato-psicodinamica), se non fosse che tipicamente sono le vittime a chiedere “giustizia”, mentre non vi è spesso una consapevole assunzione di responsabilità da parte delle organizzazioni, per il semplice motivo che – ove ci fosse – sarebbe necessario con ciò rinunciare alla “copertura” e attraversarne la psicosi. In realtà, ove il mobber e l’organizzazione che lo sostiene per dolo o per colpa trovi nella vittima designata un interlocutore capace di difendersi in modo coerente, è assai difficile che l’attività mobbizzante si protragga, in quanto si stabilisce un equilibrio di forze equivalenti.
Sostenendo dunque adeguatamente il mobbizzato (cessiamo di chiamarlo vittima!!) in modo di restituirgli il quantum energetico necessario alla difesa sana, si può evitare il difficile percorso legale che obbliga spesso (a causa dell’onere della prova) la persona a certificare il proprio disagio (sul piano psicologico significa che l’unica possibilità di difesa diventa l’essere malato!), trasformandolo in vittima ai suoi stessi propri occhi.
Inoltre c’è da chiedersi se sia una risarcimento pecuniario dei vari danni (biologico, morale, esistenziale, patrimoniale…) a essere effettivamente riparativo, o se lo sia una riacquisizione della totalità delle proprie potenzialità energetiche ed espressive (emozionali).
Occorre dire che in sede di diritto si ritiene che nei casi in cui la perizia psicologica e medico legale abbia suggerito alla vittima una psicoterapia e questi non abbia accolto il suggerimento, è da ritenere che la patologia rilevata (e il danno dunque), non fossero realmente così gravi; mentre l’esperienza clinica ci dice che sono proprio le persone più gravemente disturbate che tendono a rifiutare il trattamento psicoterapeutico.
La crescente attenzione ai fenomeni di mobbing crea oggi condizioni però di “necessità”. Le organizzazioni vengono sempre più spesso riconosciute responsabili (che lo vogliano o meno) in base alle leggi vigenti e si trovano a dovere prevenire gli abusi che esse stesse contribuiscono a determinare.
La visione verticistica delle organizzazioni, nel momento in cui la flessibilità e le estremamente varie forme contrattuali tendono a minare il concetto di dipendenza, deve essere sostituita dalla visione sistemica e dal principio dell’alternanza funzionale. Se si vuole flessibilità, occorre accettare il concetto di potenza in sostituzione di quello di potere.
Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Sergio Scialanca
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