Il cinema, fra realtà e virtualità

In Psicologia Clinica by Centro PSY

L’interesse che la psicanalisi ha da sempre rivolto al cinema e, per altro verso, l’ambizione di presentarle nuovo materiale d’indagine da parte dei cineasti più sensibili nei suoi confronti, costituiscono due prospettive che non hanno avuto conseguenze culturali sempre felici, stante il loro presupposto a volte semplicistico; spesso, infatti, gli approcci degli analisti si sono implicitamente sostenuti su di un facile e seducente psicologismo di ritorno, ed i cineasti, dal canto loro, non sono stati da meno nel credere di poter facilmente raccogliere una remunerazione culturale che, in effetti, si è poi mostrata fondata su convinzioni un po’ troppo rudemente «psicanalitiche».

Il richiamo ad un maggior rigore, al quale l’argomento di questo Quaderno c’invita, suggerendoci il riferimento al campo dei registri lacaniani dell’immaginario e del simbolico, esprime forse la medesima insoddisfazione rispetto alla disinvoltura sopra evidenziata.

Ed è, infatti, non presumendo troppo strette parentele con il cinematografo che, per quanto la riguarda, la psicanalisi può meglio coglierne gli spunti più preziosi ed efficaci: in luogo di una prossimità semantica, occorre perciò postulare non tanto una similarità di struttura, quanto una diversità di modello nella condivisione del medesimo oggetto. Pertanto, è opportuno che la ricerca non verta tanto sulla psicanalisi o sul cinema nei loro più estrinseci contatti culturali, quanto sull’oggetto che i due campi possono, volta per volta, condividere.

Linguaggio del cinema e linguaggio della realtà
Fra le novità importanti apportate dalla psicanalisi, quella particolarmente significativa che qui richiamiamo è la rielaborazione dei registri del simbolico, dell’immaginario e del reale, evidenziando la particolare problematicità che continua a presentare quest’ultimo, la cui distanza dal senso comune ha inevitabilmente lasciato spazio a molteplici misconoscimenti.

Senza dubbio l’apporto speculativo di Jacques Lacan è stato fondamentale per delineare i termini della questione, ma, riteniamo, ancor più per lo spazio di riflessione da lui aperto che non per il sistema conseguitone, cosi come di fatto si è nel tempo consolidato nella sua scuola.

Ed è proprio con riferimento alla triade borromea di tali registri che vale questo rilievo; nel senso che essendo stati sistematizzati sin dall’inizio presupponendo che ognuno di essi fosse equipotente rispetto agli altri, e valendosi di un piano che, alla resa dei fatti, si è rivelato sempre più metafisico, si sono così poste surrettiziamente le condizioni per considerarli come appartenenti ad una medesima logica ed ontologia che potesse annodarli.

Se però le cose si osservano altrimenti e, cioè, da un punto di vista più genuinamente epistemologico, più prossimo alla distinzione – peraltro presente in Lacan – fra conoscenza e scienza, non possiamo non renderci conto che, se simbolico ed immaginario si schierano autonomamente nell’ambito della conoscenza, il simbolico non può che optare per il versante della scienza.

Certamente qui stiamo schematizzando; ma è significativo che, pure a livello intuitivo, se ben ci si pensa, si può tranquillamente tagliare il nodo borromeo ed accorgersi che non vi è un rigoroso ed equipollente annodamento dei tre registri, essendo quello del reale addirittura fuori da ogni possibile descrizione ontologica.

Ma in che modo poter continuare tranquillamente a lavorare con tali tre registri, avendo postulato che fra di essi non c’è annodamento ontologico, quanto invece distanza topologica che alla fine è stata riassorbita da quello?

Il merito di Lacan è certamente stato quello di non aver voluto trascurare il peso del reale come esperienza soggettiva, e di aver cercato di implicarlo teoricamente con le dimensioni storicamente riferibili alla gnoseologia, cioè il simbolico e l’immaginario; ma per far funzionare tale implicazione l’unica strada che gli è sembrata praticabile è stata quella dell’epoché fenomenologica, il gran solvente universale; una volta effettuata l’operazione, è emersa però la difficoltà di mantenere il tutto armonicamente annodato e la presupposizione dell’equivalenza ontologica dei registri si è autonomamente reinserita, determinando una sorta d’insormontabile artificiosità in ordine all’annodabilità dei tre registri.

Aggiungiamo, infine, solo una considerazione di rilievo metodologico, che riguarda direttamente ciò che segue. Continueremo comunque, per il momento, a servirci dei tre registri, cercando, tuttavia, di ridurre operativamente il più possibile quello sconfinamento metafisico che ha permesso di proclamare il loro annodamento topologico, e che ha invece avuto come risultato lo slittamento verso il tacito recupero di una loro equivalenza ontologica.

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Proseguiamo ora rifacendoci ad alcuni autori particolarmente rilevanti per il cinema, il linguaggio e lo spettacolo, evidenziando prima di tutto come il problema del reale non può fare ancora ancora parte della loro consapevolezza teorica, in quanto essi si muovono ancora in un ambito strettamente letterario-filosofico e non scientifico, in cui a dominare sono unicamente gli strumenti conoscitivi del simbolico e dell’immaginario; ad ogni modo, e questa e la nostra tesi riguardo alla dimensione culturale cui appartengono tali autori, qualcosa del reale emerge inconsapevolmente, anche se come una sorta di presenza/assenza vagamente intuìta.

Cercheremo, quindi, di porre in rilievo come la dimensione inconscia del reale trapeli, a volte, in questi percorsi culturali e proprio allorquando la sola e consueta nozione di realtà comincia a sua volta a cederle il passo, lasciando spazio a qualcosa che in quel momento è ancora solo un irriducibile interrogativo.

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Pier Paolo Pasolini, nel suo ambizioso programma di ripensamento della natura dei dati originari e più elementari della tecnica cinematografica – quasi come se in questi egli fosse convinto di poter ritrovare originariamente l’essenza e lo spirito del cinema – riteneva che, proprio a partire da un loro ripensamento che fosse riuscito a metterne in rilievo il loro valore linguistico, sarebbe stato possibile comprendere che la prerogativa e l’unicità del mezzo cinematografico consisteva non soltanto nella capacità di restituire una semplice impressione di realtà – per quanto artisticamente elaborata e capace d’insinuarsi sino all’essenza stessa della concretezza – ma anche, e specificamente, che esso era in grado di svelare, e con carattere sorgivo, la realtà tout court; il presupposto a tale capacità evidenziata da Pasolini, che, ribadiamo, era da lui collocata logicamente prima dell’elaborazione artistica, cioè a livello dell’originalità puramente tecnica, è efficacemente riassunto in questa sua osservazione: “Non è vero che l’unità minima del cinema sia l’immagine, quando per immagine s’intenda quel «colpo d’occhio» che è l’inquadratura: o insomma ciò che si vede con gli occhi attraverso l’obiettivo. Tutti, Metz e io compresi, abbiamo sempre creduto questo. Invece: l’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono una inquadratura.” ( nota 1 )

Il nostro regista proseguiva, inoltre, affermando che nella “lingua del cinema la realtà, nei suoi oggetti e forme reali particolari, permane, è un momento stesso di quella lingua.” ( nota 2 ) Nel cinema, dunque, per Pasolini le cose sono parole, anzi, più radicalmente ancora, le cose nel cinema hanno l’analoga funzione che i fonemi hanno nel linguaggio, tanto è vero che egli finiva così per ricondurre tutti gli oggetti, forme o atti nella realtà che appaiono nel film, e per analogia con la terminologia linguistica, alla categoria da lui definita dei cinèmi.

Pasolini tendeva così quasi ad azzerare, e sino al limite estremo di una loro possibile sovrapponibilità, le differenze ontologiche fra il cinema e ciò di cui esso sarebbe l’espressione artistica, cioè la dimensione corrente di realtà, postulandone la loro identità sostanziale. ( nota 3 )

Egli non poteva che concludere in questo modo, in quanto la sua tesi iniziale si fondava sull’assunto che il cinema fosse una vera e propria lingua e, per essere più precisi, una lingua scritta della realtà. Lo specifico del cinema consisterebbe quindi nell’aver posto in essere quella tecnica che (ri)crea artisticamente il tessuto stesso della realtà.

Ma se non vogliamo fermarci a queste considerazioni che si muovono pur sempre in una dimensione che ricorre, più o meno correttamente, alla linguistica, articolata con una sorta di piglio fideistico dal sapore fenomenologico, quello dell’andare alle cose stesse, e forziamo il concetto di realtà servendoci di quello di reale, non scorgiamo forse, al fondo dell’operazione al limite condotta da Pasolini, una sorta d’intuizione del reale che, andando contro la sua stessa convinzione teorica, non può essere rappresentato ma solo negativamente presentato ? L’identità ontologica ipotizzata fra i termini minimi della lingua e gli oggetti della realtà non dà forse voce all’intuizione della possibilità di cogliere, ed a partire da un fondo di sottile disperazione, il sentore di un’indescrivibile assenza ?

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Un’altra modalità di ricerca cui possiamo ora ricorrere, riferibile ad una classificazione aristotelica, e che è implicitamente fatta propria anche dal pensiero pasoliniano, è la verifica del rapporto fra la dimensione narrativa (diegetica), nell’ambito della realizzazione della trama cinematografica, e quella imitativa (mimetica).

Pasolini sembrava orientato a ridurre la primaria importanza che la dimensione simbolica della narrazione nella sua indiscussa ovvietà rivestiva nel cinema; nella sua profonda invocazione alla fisicità concreta ed immediata della realtà, egli era invece orientato come a dover svelare la coesione intrinseca delle componenti minime della «lingua» e della «realtà», essendo convinto che tale operazione potesse rendere finalmente consapevole il fondo originario di ciò che da sempre la cinematografia pone in atto; e, in questo modo, egli forse anche intendeva evidenziare che il cinema, nella sua potenza d’oltrepassamento dei confini diegetici della rappresentazione (Vorstellung), non fa che attingere ed artisticamente riprodurre la pulsante realtà stessa, presentandola (Darstellung) mimeticamente.

Rispetto alle altre arti, l’originalità del cinema consisteva dunque, per Pasolini, proprio in questo suo andar oltre la più complessa e raffinata delle narrazioni per giungere al cuore stesso della realtà, producendo così una divina mimesis, come egli stesso la definiva, operando perciò una presentazione mimetica che a sua volta si manifesta mediata dalla rappresentazione diegetica.

Non potendo disporre, tuttavia, di una matura elaborazione teorica del registro del reale, Pasolini ha finito ancora col puntare tutto su di una specifica potenzialità ontologica del cinema, non riuscendo, di conseguenza, ad ottenere la consapevolezza della differenza, sottostante alla mimesi, fra il reale da un lato ed il simbolico e l’immaginario dall’altro.

A partire da una prospettiva sensibilmente diversa, non specifica del campo cinematografico, ma che riguarda più in generale il rapporto fra immagine e scrittura, Roland Barthes riteneva che: “[…] gli insiemi d’oggetti (vestito, cibo), non accedono allo statuto di sistema se non passando attraverso la mediazione della lingua […] nonostante l’invasione delle immagini, la nostra è più che mai una civiltà della scrittura. In genere, poi, sembra sempre più difficile concepire un sistema d’immagini o d’oggetti i cui significati possano esistere fuori dal linguaggio: per percepire ciò che una sostanza significa, si deve necessariamente ricorrere al lavoro di articolazione svolto dalla lingua: non c’è senso che non sia nominato, e il mondo dei significati non è altro che quello del linguaggio.” ( nota 4 )

La prospettiva di Barthes solo apparentemente rovesciava l’ipotesi pasoliniana in quanto si attestava sociologicamente al di qua del confine accademicamente prestabilito al sapere. Infatti, qui vediamo all’opera la più classica funzione del simbolico, la quale consente di padroneggiare e stabilire le coordinate dell’immaginario senza, tuttavia, poter nemmeno sospettare gli effetti di quel registro del reale che Pasolini è, invece, secondo noi, riuscito perlomeno a adombrare: il suo rigoroso strutturalismo trattiene invece Barthes da ogni possibile ipotesi di un oltre-il-simbolico.

Un altro autore cui vogliamo solo accennare, nonostante non abbia trattato direttamente del cinema, quanto dell’aspetto sociologico dello spettacolo in generale, è Guy Debord.

Mentre i nostri due precedenti autori ritagliavano con accuratezza la struttura simbolica che sostiene l’immaginario, egli, per altre vie, rivisitando radicalmente il concetto di spettacolo ( nota 5 ) così come esso si manifesta nella società contemporanea, ed esaminando sotto tutti i suoi aspetti il fenomeno del dilagare invasivo e pervasivo delle immagini nella loro rappresentatività iperrealista – cioè come mondo autonomizzato dell’immagine che conduce all’inversione concreta della vita, – sembrava intuire che tale frangente non solo poteva costituire il sintomo di una soggettività in crisi rispetto all’effervescenza di un immaginario sempre meno sostenuto dalle capacità d’inquadramento dell’oggetto di desiderio da parte del simbolico, ma era anche un indice dell’eventualità che fra simbolico ed immaginario si poteva inserire una «terza dimensione»: quella del reale.

La realtà del cinema e la virtualità dell’inconscio.
Con il registro del reale abbiamo così circoscritto l’emergenza di un’irriducibile dimensione soggettiva, con la quale ci si confronta costantemente, che è percepita ma non resa perspicua alla coscienza se non con una speculazione teorica che ne disegna gli effetti in quanto problematicità ontologica.

Sulla scorta di quanto sin qui acquisito, esamineremo ora tale registro a partire da una prospettiva alternativa e, cioè, interrogandolo in relazione alle sfere della realtà e della virtualità, la cui relazione differenziale ha una natura del tutto particolare.

Contrariamente a quanto può apparire al senso comune, la realtà è il punto d’arrivo, ma non di partenza del soggetto. Infatti, se l’immaginario instaura direttamente la realtà (fantasmatica) soggettiva, il simbolico ed il reale ne costituiscono i presupposti indiretti, agendo fuori realtà ed a partire dalla dimensione del virtuale, ossia, dal dominio dell’Alterità.

Ma se il simbolico struttura la realtà soggettiva sostenendo la ripetizione nel continuo storicamente dato della conoscenza, il reale può invece intervenire con l’intermittenza dell’evento, come funzione straordinaria di una molteplicità potenziale di sapere, la quale a sua volta non è ancora ontologicamente data come lo è la conoscenza, ma è fuori essere, così come lo è l’oggetto della scienza. Il reale è, se vogliamo, il fuori simbolico riscontrabile nell’Altro (A barrato), assenza che è propria del funzionamento sin qui descritto e, dunque, non dev’essere ontologicamente colmata come se fosse una mancanza d’essere.

Un’esemplificazione alternativa, a tale riguardo, è quella proposta da Piergiorgio Odifreddi, secondo il quale se la realtà è la visione del mondo personale, per contro, nella temporalità soggettiva, tale visione si astrae depersonalizzandosi e si trasforma andando ad integrare la dimensione del sociale; ne consegue che le rappresentazioni soggettive sono quelle che conferiscono nuovo supporto simbolico al virtuale. ( nota 6 ) L’appunto che si può muovere a questa visione, è che essa è soggettivista ed a senso unico, nel senso che pone la virtualità come fosse il mero deposito cristallizzato dalla soggettività, una sorta di mera purificazione ideale di contenuti soggettivi; è vero invece che, se per un verso la realtà soggettiva è una fantasmatizzazione della dimensione virtuale e delle crisi dovute alle incursioni del reale, per altro verso il contributo soggettivo nella sua costruzione di verità ha, come effetto, non solo di depositare conoscenze acquisite, ma anche quello cruciale di realizzare nuovo sapere. ( nota 7 )

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Per sintetizzare il percorso sin qui svolto, riteniamo di poter affermare che, fra le varie forme d’arte, il cinema è quella che meglio riesce a sorprendere il reale mediante una speciale realizzazione immaginaria, la quale a sua volta supera di slancio la mediatezza rappresentativa propria del simbolico, per realizzare così una sorta d’immediatezza presentativa. ( nota 8 )

Tale immediatezza tocca vari punti ideali di confine e sembra poter stabilire contatti ed analogie con la dimensione inconscia. Infatti, come attesta lo stesso Metz ( nota 9 ), il cinema sollecita l’inconscio con una sorta di rapimento onirico. Ed è proprio a questo livello che il reale stabilisce – pur essendo impropriamente possibile poter determinare un luogo attinente alla sua forma di virtualità, in quanto essa è sempre topologica e mai ontologica – un immediato contatto con il soggetto sviluppando in suo favore un immaginario che, essendo solo marginalmente mediato dal simbolico, sfiora direttamente il reale.

Il reale che interessa direttamente il soggetto è, come si sa, per sua natura traumatico, non essendo mediato dal simbolico, e quindi può indurre un godimento senza che il soggetto possa disporre di riferimenti atti ad inquadrarlo; tuttavia, il reale, come del resto ognuno degli altri registri soggettivi, ha la prerogativa di non essere autoreferenziale e perciò di non produrre i propri effetti, come invece il simbolico, con una sorta di eterno ritorno della realtà della conoscenza, la quale sfiora solo marginalmente l’esperienza soggettiva. Infatti, la virtualità del reale tende come a scavalcare la struttura mediatrice presentando l’oggetto fuori dai consueti schemi della conoscenza simbolica. Il trauma non ha dunque solo una valenza negativa, ma è un momento di sovversione del soggetto che gli consente un’inusitata acquisizione di sapere.

Il campo vero e proprio del virtuale reale lo definiremmo, dunque, come il luogo originario, sorgivo dell’oggetto, il quale si distacca da ogni vincolo possibile istituito storicamente dalla soggettività nella sua dimensione più propria, che è quella della realtà.

Se, dopo questo excursus, ritorniamo all’opzione pasoliniana e la rileggiamo alla luce di quanto sin qui esposto, pare finalmente di poter notare – ma non tanto dal punto di vista artistico quanto da quello della sua azione inerente la soggettività – che peculiare del cinema è la possibilità di realizzare una sorta di incursione nel territorio traumatico del godimento, come a presentificare un’alterità problematica che s’impone al soggetto affiancando quella correntemente simbolica che fonda la realtà nell’immaginario.

L’effetto spettacolare del reale
Slavoj Žižek evidenzia che uno dei tratti specifici della società del XX secolo è una sorta di epidemia dell’immaginario, congiuntura epocale che può essere colta in tutta la sua pregnanza se la si considera sullo sfondo d’un altro versante sintomatico della nostra società, evidenziato anch’esso dal filosofo di Lubiana: la passione per il reale: “L’esperienza essenziale che definisce il XX secolo è stata l’esperienza diretta del reale in quanto opposto alla realtà sociale quotidiana, il reale nella sua estrema violenza come prezzo da pagare per poter asportare gli strati fuorvianti che ricoprono la realtà.” ( nota 10 )

Dovrebbe così risaltare che siamo immersi una congiuntura di particolare attrito ideologico, la quale si manifesta non solo in riferimento al livello più generale della complessità sociale, come intuitivamente può essere dato osservare, ma che coinvolge anche, ed in modo ancor più drammatico, le stesse individualità nella loro vita quotidiana; congiuntura che si manifesta con una sorta di dominio spettacolare dell’immaginario, e che non può essere ridotta ad una semplice e indesiderata conseguenza dell’evoluzione tecnico-economica della società, ma è più precisamente indice di una vera e propria crisi a livello della realtà soggettiva, della sua capacità di attingere armonicamente dal registro di un simbolico ormai epocalmente “sfilacciato”, cui fa come da contraltare, appunto, come rimando, la passione per il reale.

Ci stiamo infatti sempre più allontanando non solo dall’ingenuo mondo nostalgico di cui Pasolini decretava a malincuore l’estinzione, quindi non solo dal remoto pre-moderno, ma anche dallo stesso post-moderno all’interno del quale le «cose» hanno da tempo iniziato a smarrire una loro tonda e rassicurante realtà, una loro pienezza ontologica che oggi si rivela sempre più incrinata; è forse un trovarsi di fronte all’intermittenza abbagliante dello straniante della «Cosa», ormai non più censurabile e contenibile da un meccanismo fantasmatico non più adeguato nei suoi consueti contenuti; e questo perché se, da un lato, lo straniante è pur sempre consustanziale alla dimensione umana, d’altro lato solo ora emerge la consapevolezza dell’insufficienza di un’analisi che si accontenti del mero versante della realtà delle cose, e non presti finalmente l’urgente attenzione all’emergere del reale della Cosa. Quella Cosa, più precisamente, che è all’origine di ciò che Žižek vede come l’effetto spettacolare del reale, quasi come se l’indomabilità della Cosa invocasse il godimento/distruzione dei suoi feticci, delle sue reificazioni; e la risposta sintomatica finora è stata quella paradossale – perché fino in fondo acefala – di un mondo sempre più colmo di merci, che nel loro rilucere rappresentano il tentativo estremo di un andar oltre, indefinitamente ripetuto, il quale alla fine non si rivela essere che una mera cosmetica della Cosa

Crediamo dunque di poter cogliere nel cinema quel discorso, molto particolare, che si gioca al limite di una rappresentazione e di una presentazione del reale, rispettivamente di una cattura simbolica di esso, ma anche della sua impossibile contenibilità.

Žižek pone infatti in evidenza la contiguità, lo stretto rapporto fra reale e apparenza, postulando che essi s’implichino a vicenda in quanto opposti, ed affermando che se “la passione per il reale finisce nella pura apparenza dell’effetto spettacolare del reale, per un movimento esattamente inverso, la passione «postmoderna» provata dall’Ultimo Uomo per l’apparenza finisce in un violento ritorno alla passione per il reale.” ( nota 11 )

Conclusione
L’intuizione di Pasolini riguardo alla specificità del linguaggio cinematografico, ci ha consentito d’evidenziarne l’originalità rispetto alle più tradizionali forme rappresentative della scrittura e dell’arte. In altri termini: mentre, ad esempio, il teatro rientra nel dominio di una retorica mediata e dominata dal concetto, il cinema viceversa, pur essendo intessuta la sua trama dalla narrazione diegetica, trova parte della sua più profonda essenza e della sua tecnica nello svincolarsi dal discorso rigidamente intessuto del simbolico e può così presentare mimeticamente l’oggetto nella sua libertà: il cinema ottiene, perciò, di dilatare le maglie della struttura, quasi predisponendo il passaggio del reale attraverso esse e ponendolo direttamente a contatto con la percezione dello spettatore.

L’immaginario del cinema ha forse costituito da sempre una dilatazione, e sin dai suoi esordi, del limite massimo della narrabilità simbolica. Le forme cinematografiche, nella loro inesauribile varietà, ci hanno da sempre offerto una lettura del reale con un’efficacia tale da rinnovare il concetto stesso di arte. Forse ciò è stato possibile perché il cinema riunisce in sé le potenzialità di tutte le altre arti che l’hanno preceduto, in una sorta di ricapitolazione delle estetiche approdante al mimetico nel senso più artisticamente produttivo del termine.

Tanto è stato scritto sulla natura del cinema. Da parte nostra potremmo solo osservare che se è vero che l’evoluzione dell’arte parte dal dominio simbolico della natura attraverso gli equilibrismi formali del bello, per approdare al limite infinito dell’apertura all’impossibilità simbolica del sublime, ebbene, come non riconoscere nel cinema, non tanto un semplice superamento delle altre arti, quanto la loro rinascita in una forma nuova, quella di un’arte così efficace nel proporci esteticamente il reale d’ogni epoca?
“Une écriture peut être figurative, elle est toujours,
comme un langage, articulée symboliquement.
J. Lacan, «Situation de la psychanalyse
et formation du psychanalyste en 1956»

Fonte: Psicoterapia.it
Autore: Raul Silvestri

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